
La Festa della Repubblica è l’occasione principale per ricordare e celebrare i principi fondamentali su cui si basa lo Stato italiano. Libertà, uguaglianza ed equità sono valori che oggi vengono dati per scontati mentre, appena qualche decennio fa, furono conquistati con la resistenza e con il sangue. Il referendum italiano del 1946, per la prima volta a suffragio universale, ne è il simbolo.
Mentre quel momento storico è diventato nel tempo un emblema di civiltà e democrazia, oggi si sente spesso discutere circa la bontà di affidare scelte così importanti e complesse al voto diretto del popolo. Nel caso del referendum per la permanenza della Gran Bretagna nell’UE del 2016, infatti, si è sentita sempre più spesso un’aspra critica nei confronti dell’esito finale fino a richiedere, ironizzando, l’abolizione del suffragio universale. È ai limiti del paradosso. Noi di Il Decino alla vigilia del 2 Giugno ci siamo posti alcune domande: cosa determina la scelta politica di affidare una decisione complessa a un referendum? Ha senso giudicare il valore di un referendum in base all’esito?
Per provare a rispondere a queste domande siamo andati a fondo, in parallelo, sulla storia del referendum italiano del 1946 prima e quello britannico del 2016 dopo, trovando alcune somiglianze degne di approfondimento. Ne è venuta fuori una riflessione che vorremmo condividere con Voi.
Il referendum come strumento di competizione politica
La storia che ha portato al referendum del 1946 si manifesta come una serie di passi concatenati. A seguito della destituzione di Mussolini da parte del Re Vittorio Emanuele III, l’Italia era governata dal maresciallo Badoglio con la supervisione delle forze Alleate. Furono proprio quest’ultime, con Roosevelt in prima linea, a caldeggiare per prime l’ipotesi di sottoporre la scelta della forma di governo tra Monarchia e Repubblica al popolo italiano al termine delle ostilità.
Con l’allontanamento definitivo dei tedeschi la questione si pose in cima all’ordine del giorno e fu oggetto di ampio dibattito fra gli esponenti della politica italiana. L’ala repubblicana premeva affinché il popolo italiano votasse a suffragio universale i propri rappresentanti in Assemblea Costituente, e successivamente fosse quest’ultima a scegliere fra Repubblica e Monarchia; l’ala monarchica spingeva verso un referendum a suffragio universale obbligatorio in cui il popolo avrebbe scelto direttamente fra Repubblica e Monarchia. Si trovò il compromesso in un referendum a suffragio universale, ma su base volontaria.
La questione nasconde una particolare chiave di lettura e restituisce una realtà dei fatti in parte difficile da accettare. Le posizioni delle due parti erano principalmente dettate da una logica utilitaristica: ciascuna fazione ha cercato di orientare la decisione verso la modalità di voto che avrebbe favorito maggiormente l’esito da loro auspicato; la fazione monarchica, in particolare, vedeva il referendum come un’ultima spiaggia per la propria sopravvivenza. Alla questione filosofica di fondo, posta dagli Alleati, si è aggiunta dunque la volontà di sfruttare il tessuto sociale e le caratteristiche dei votanti per vincere, mettendo in secondo piano il profilo “democratico” della scelta.
Una chiave di lettura simile può essere applicata al referendum per la permanenza della Gran Bretagna nell’UE, indetto nel 2016 dall’allora Primo Ministro David Cameron. A seguito dell’exploit del partito conservatore Ukip alle elezioni europee del 2014, infatti, la Gran Bretagna si mostrava socialmente ed economicamente divisa, tanto che una parte consistente della popolazione richiedeva l’uscita dal mercato comune. Cameron, minacciato dall’ascesa di Nigel Farage, leader del fronte antieuropeista, per le successive elezioni nazionali, ha cercato uno strumento per rafforzare la propria leadership individuandolo nel referendum, poiché una vittoria del “Remain” avrebbe posto un limite alle aspirazioni dell’opposizione. Se mai ci sia stata un’intenzione democratica, nella manovra di Cameron, è molto più evidente la sua strumentalizzazione politica del referendum.
Le due vicende, seppur distanti temporalmente e geograficamente, hanno quindi un grande punto in comune: l’utilizzo del referendum come strumento di competizione politica che ne oscura in parte la valenza democratica.
Una Nazione è un insieme di individui con similitudini e differenze
È ben noto che il popolo italiano abbia scelto la Repubblica, con 12.717.923 voti contro i 10.719.284 voti ricevuti dalla Monarchia. Come per ogni votazione il dato aggregato nasconde alcune circostanze degne di nota riguardo il modo in cui la condizione economica del momento, la presenza delle donne nell’elettorato e la composizione territoriale abbiano influito sull’esito finale. Quanto pesa il tessuto socioculturale in una votazione?
Negli anni sono state avanzate diverse teorie circa l’esito del voto del referendum italiano del ‘46. Una prima teoria affermava che la parte di popolazione più istruita, principalmente gli abitanti delle città, avesse mostrato una preferenza verso l’alternativa repubblicana, al contrario della controparte che abitava le campagne, meno alfabetizzata, che sosteneva la monarchia. Un’altra teoria vede l’inclusione delle donne nell’elettorato come componente determinante per la vittoria della Repubblica. Ma se queste due teorie sono rimaste tali, poiché non si dispone di dati dettagliati sul voto individuale, un risultato supportato dai fatti è lo spaccato fra un Nord repubblicano con il 66,2% dei voti, e un Sud monarchico con il 63,8%.
Un’evidente divisione sociale può essere rintracciata anche nei risultati del referendum britannico del 2016. Il risultato, che ha visto la fazione del “Leave” vincere con il 51,89% dei voti, è stato determinato dalla presenza di un gruppo sociale che si è definito “abbandonato”. Quest’ultimo era caratterizzato da un senso generale di insicurezza, pessimismo e marginalizzazione, e dal pensiero che i propri rappresentanti nazionali ed europei non provassero empatia verso la loro difficoltà ad approcciare il cambiamento sociale, economico e culturale di questi ultimi anni. Anche in questo caso, fattori come la posizione sociale, l’istruzione e la diversità etnica hanno giocato un ruolo fondamentale nell’evidenziare le crepe nel tessuto sociale della popolazione chiamata al voto.
Qualunque interpretazione si scelga come la più corretta, comunque, in questa sede vogliamo sottolineare come le preferenze delle persone non siano innate ma sono influenzate alle proprie caratteristiche individuali. Qualsiasi cambiamento determina, nel mondo così come lo conosciamo, vincitori e vinti; i vincitori, che hanno in comune alcune caratteristiche, favoriranno il cambiamento, mentre i vinti, che ne hanno in comune altre, si opporranno. Nessuno di loro guarda alla scelta migliore per la società nel suo complesso, ma scelgono in relazione alle proprie caratteristiche personali. Non c’è chi sceglie bene e chi sceglie male.
Ciò che emerge è che le caratteristiche del tessuto sociale sono fondamentali nel determinare l’esito di un referendum, e di una votazione in generale, diventando quindi un elemento chiave per la competizione politica. Teniamo a mente queste affermazioni e traiamo le nostre conclusioni.
La competizione politica a vantaggio del popolo
È vero, spesso si ricorre al referendum come strumento di competizione politica, sfruttando le peculiarità del tessuto sociale di riferimento, ma non vuol dire che non possiamo utilizzare quello che abbiamo compreso per capovolgere la situazione.
Che la classe politica tenga conto del tessuto sociale non è di per sé negativo, lo sarebbe anzi il contrario. Adottando una logica liberale, possiamo dire che la competizione politica garantisce che la volontà del popolo sia tenuta in considerazione. Il fatto che l’elettorato venga chiamato in causa, o se ne considerino gli interessi, quando si fronteggia una decisione complessa in merito alla loro sovranità è doveroso. La partecipazione è fondamentale, oggi più che mai.
Uno Stato non può dimenticarsi dei vinti
Il problema emerge quando un tessuto sociale è caratterizzato da vistose crepe, perché in questo caso ogni evento politico dà luogo a vantaggi e svantaggi per gruppi sociali ben distinti e categorizzati.
Il nostro mondo oggi funziona in questo modo. Gli studenti di una qualsiasi laurea triennale in Economia potranno confermare: sin dalla prima lezione di Politica Economica, si assume che il “decisore sociale” (immaginate lo Stato) debba massimizzare il bene comune. Non c’è contraddittorio, oggi si considera scontato che si debba agire così, non importa chi e quanto venga svantaggiato dalla competizione sociale. Da lì una logica spietata: gli svantaggiati devono immolarsi al bene comune e in pochi si chiedono fino a che punto.
Quando all’interno di una società esistono categorie così nette, distinte per ceto sociale o livello educativo, non si può pretendere che l’esito di una consultazione popolare sia la scelta migliore per la società nel complesso. Il referendum rappresenta anzi il momento in cui chi si è sentito “abbandonato” può riunirsi e dar voce ai propri interessi.
Il nostro è un mondo molto articolato e prendere le decisioni complesse a volte è un compito ingrato. Al termine di questa riflessione, tuttavia, siamo ancora più convinti che la volontà del popolo e di ognuno che ne fa parte rappresenti un apporto fondamentale. Vogliamo dunque celebrare ancora una volta questo 2 Giugno e vi auguriamo una buona Festa della Repubblica!


Un pensiero riguardo “Scelte Complesse e Democrazia”